martedì 28 ottobre 2014

AFRICA, EVASIONE E MULTINAZIONALI


Il caso dello Zambia, dove alcune multinazionali sono accusate dal governo di evasione fiscale e una di esse, la Glencore, ha cominciato a chiudere impianti, licenziando lavoratori, non è un esempio isolato in Africa. In un’intervista alla MISNA lo sottolinea Henry Malumo, coordinatore africano per l’advocacy della ong Actionaid, che denuncia in particolare l’impatto che le mancate entrate fiscali hanno a livello continentale.

Perché quel che succede in Zambia è emblematico?
“Negli ultimi tempi nell’intero continente africano le multinazionali stanno deliberatamente identificando scappatoie legali per evitare di pagare le tasse. Lo Zambia ne è un esempio, il Mozambico un altro e persino il Sudafrica, che ha una normativa molto sviluppata, ha sofferto significative perdite di entrate. Molte scappatoie sono possibili grazie ai trattati bilaterali d’investimento e in materia fiscale. L’Africa è al bivio, perché i paesi da cui riceve aiuti sono gli stessi che sembrano aver facilitato i flussi illeciti di capitali”.

Di che cifre si parla?
“È complicato – vista la natura di queste attività – capire quanto denaro perde l’Africa. Stime dell’Unione Africana parlano di 60 miliardi di dollari l’anno. La quota più grande finisce in paesi come gli Stati Uniti o la Gran Bretagna. Ma bisognerebbe citare anche le esenzioni fiscali che spesso sono concesse per 10 o 20 anni alle multinazionali, ma non alle piccole imprese locali. E le infrastrutture utilizzate da queste compagnie per trasportare i minerali sono realizzate a spese dei contribuenti… Non siamo contro gli incentivi fiscali, ma esenzioni decennali o ventennali danneggiano l’economia: complessivamente, le perdite sono di oltre 300 miliardi di dollari l’anno, secondo le nostre stime”.

In molti casi, però, alle compagnie si chiede, come contropartita degli investimenti, di creare servizi sul territorio, come strade o scuole. Può bastare?
“Questo in effetti è l’argomento con cui le compagnie difendono i loro privilegi fiscali, ma non può trasformarsi in una scusa per non pagare. Queste pratiche di corporate social responsibility, come sono chiamate, non sono regolamentate: sono spesso una concessione delle imprese stesse, non il risultato di un accordo vincolante. Se invece ai governi arrivassero i proventi delle tasse non pagate, potrebbero essere in grado di creare servizi durevoli, a beneficio non solo delle comunità coinvolte dallo sfruttamento minerario, ma di tutto il territorio. Infine, questo non può essere il lavoro delle multinazionali: i governi sono nella posizione migliore per decidere dove e come costruire determinate strutture. La quantità di denaro che gli Stati perdono, complessivamente, supera il valore degli aiuti allo sviluppo destinati all’Africa!”

Ci sono differenze nel comportamento delle imprese occidentali e di quelle delle economie emergenti?
“In Paesi come Zambia e Zimbabwe vediamo che in termini di posti di lavoro persi e di mancati investimenti nella governance aziendale, le imprese – ad esempio – cinesi non rispettano gli standard richiesti. In più, i cinesi in patria hanno una fedeltà al fisco molto elevata, ma in Africa non è così”.

Ha citato accordi sfavorevoli firmati da molti Stati, può fare esempi concreti?
“Molti permettono alle società di pagare non secondo le norme del paese in cui estraggono le risorse, ma di quello in cui hanno sede. In parte questo è dovuto alla convinzione iniziale che così facendo si sarebbero attratti più investimenti, in parte a un errore dei governi africani stessi, che però deriva anche da una mancanza di informazioni in materia. Un esempio chiaro è quello dell’Uganda che ha firmato un trattato con le Mauritius, così come stava per fare la Nigeria. Questi accordi permetterebbero alle compagnie di far passare il denaro attraverso le Mauritius, cioè un paradiso fiscale”.

Esistono, però, anche esempi di segno opposto…
“Il Rwanda ha di recente rivisto il suo trattato in materia con le Mauritius e lo stesso ha fatto il Sudafrica, considerando che i profitti di molti degli investimenti ufficialmente destinati a Pretoria passavano invece per l’arcipelago. Questo era stato anche consigliato dalla società di consulenza Deloitte a un gruppo di investitori – tra cui alcuni provenienti dalla Cina – come destinazione di capitali provenienti da operazioni in Mozambico. Eppure i paesi africani, con aliquote che a volte arrivano appena al 3%, sono tra quelli con le tasse più basse in questo settore”.

A che livello si può intervenire per fermare questo fenomeno?
“I governi africani devono agire insieme, ma serve un contributo anche dall’esterno. Credo che una leadership in questo senso possa essere cercata anche all’interno dell’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, ndr) e del G20. Questi possono essere stati parte del problema in passato e molte delle compagnie coinvolte vengono da paesi che ne fanno parte, ma ora c’è bisogno di un’azione collettiva”.

fonte: misna.org