Come giudica l’evoluzione attuale della situazione
del suo paese ?
Di un’estrema gravità , ma non disperata. C’è da
una parte la disinformazione che non contribuisce per niente alla pace, e
dall’altra l’attitudine di certi dirigenti africani che sembrano aver fatto la
scelta della guerra nel nostro paese dall’inizio di questa crisi detta maliana.
La disinformazione consiste nell’occultare lo
scacco del modello economico messo in opera e quello del sistema politico che
sostituisce la democrazia. Il falso diagnostico che ne deriva spinge la
comunità internazionale a prendere delle decisioni che giudico erronee ed
ingiuste.
Questa crisi, non lo si dirà mai abbastanza, è
prima di tutto una delle conseguenze drammatiche dell’intervento della NATO in
Libia. Comprendo i miei concittadini che, traumatizzati dalla violenza
dell’invasione e dell’occupazione dei 2/3 del nostro territorio e attoniti per
la sconfitta del nostro esercito contro il Movimento Nazionale di Liberazione
dell’Azawad (MNLA) e i suoi alleati islamisti, credono che l’intervento di
forze militari esterne sia una soluzione rapida, efficace e radicale. Niente è
meno certo.
Basta guardare dalle parti dell’Afghanistan,
dell’Iraq, della Costa d’Avorio e della Libia per rendersi conto che la guerra
non è la soluzione. Morti, violenze, feriti, sfollati, rifugiati, ecosistemi
saccheggiati e distruzione di infrastrutture, spesso acquisite al prezzo del
pesante fardello del debito estero, sono conseguenze che nessuno dovrebbe
banalizzare e a più forte ragione ignorare.
Ma concretamente, essendo il nord occupato, come
fare per recuperarlo senza un intervento militare della Comunità economica
degli stati dell’Africa dell’ovest (CEDEAO) e dell’Occidente ?
Non sarò io a dire che non bisogna fare niente per
fermare il calvario dei miei fratelli e sorelle del nord del nostro paese,
quando penso ai massacri perpetrati contro dei soldati disarmati a Aguelhok,
alle violenze, ai morti, ai saccheggi,tra cui quelli di ospedali e farmacie.
Questo trattamento è inflitto a delle popolazioni innocenti che erano già provate
dalla fame, la mancanza d’acqua e altre penurie.
D’altronde, un paese, oltre ad essere una storia,
un’identità, è anche la rappresentazione che se ne fa. Facciamo fatica, come
maliani e maliane, ad immaginare il nostro paese amputato delle regioni di Timbuktu,
Gao e Kidal. L’invio di truppe della Cedeao in questo contesto è pertanto
auspicabile ? Assolutamente no. I combattimenti, se avranno luogo, non si
svolgeranno nel deserto, ma nelle città e nei villaggi.
Per liberare il settentrione maliano, dobbiamo
cominciare dal domandarci cosa ci succede esattamente. Perchè ? Come? Ed
ora? Non arriviamo a parlarne tra di noi con la serenità necessaria in ragione
di malintesi che tengono ugualmente all’ignoranza di certi progetti.
Per quelle che sono le cause interne, siamo quasi
unanimi nel riconoscere la nostra mancanza di visione, le nostre incoerenze, le
nostre contraddizioni, la corruzione e l’impunità. Le cause esterne, per
contro, sono accuratamente occultate dal momento che sono spesso più
determinanti. La classe dirigente eccelle spesso nell’arte dell’autosoddisfazione,
dell’autoglorificazione e della seduzione del denaro.
Se noi fossimo più perspicaci e più aperti
all’autocritica e al dibattito contraddittorio, saremmo più numerosi a
comprendere che la guerra che la Cedeao valuta di fare nel nostro paese, non è
che quella della restaurazione dell’integrità territoriale. E anche una nuova
tappa della guerra mondiale al terrorismo, mirante a contrastare Al Quaida nel
Maghreb Islamico (Aqmi), Ansar Eddine e altri gruppi islamisti sul nostro
territorio.
Non avremmo avuto niente da ridire se non si
trattasse dell’esternalizzazione della politica securitaria delle potenze
occidentali che sono in una logica di noncuranza della violenza armata di
alcuni dirigenti africani. Questi ultimi, nel caso del Mali, sembrano anche
giocare d’anticipo, sollecitando la Francia e il Consiglio di Sicurezza
dell’ONU.
La doppia pena inflitta al nostro paese, sotto il
pretesto di aver fallito su differenti piani dalla protezione delle sue
frontiere a quella delle sue aquisizioni democratiche, consiste nel farne un
terreno di caccia contro l’islamismo –di cui sarebbe diventato di punto in
bianco il focolaio-, e a reinstaurare, costi quel che costi, un ordine
costituzionale detto normale, nel momento in cui questo non aveva niente di
virtuoso.
Bisogna credere, partendo da questa
analisi, che la presa in mano del dossier da parte dell’Unione Africana vada
nel verso giusto ?
Il rifiuto della democrazia è purtroppo lo stesso a
livello di tutte queste istanze, perchè la premessa di partenza, che consiste
nel decretare che c’è democrazia dal momento in cui ci sono libere elezioni, è
erronea. Il processo di presa di decisione nella gestione di questa crisi
riproduce l’esclusione di cui i maliani e le maliane hanno sofferto negli
ultimi vent’anni, a dispetto della retorica sulla decentralizzazione e la
partecipazione popolare.
Per lo stato neoliberale, noi non contiamo in
quanto popolo. Ed ecco che noi non contiamo più in quanto paese. Oltre
all’occupazione del nord, noi siamo sotto tutela per quanto riguarda la
questione politico-istituzionale. La logica dominante vuole che a partire dal
momento in cui non ci sono dei dirigenti legittimati da delle elezioni, anche
se gli eletti che hanno governato hanno fallito, non ci sia più nient’altro da
fare che organizzare delle elezioni in modo da rimettere i medesimi in sella.
E’ a questo gioco pericoloso che sta giocando la
Cedeao, accordando più importanza alla legittimità di facciata che all’integrità
territoriale e alle risposte concrete e rapide che i maliani e le maliane
attendono, da troppo tempo, alle domande di vita o di morte che si pongono.
Se l’embargo totale che la Cedeao voleva imporci è
stato evitato, il paese si sta comunque confrontando con una sorta di paralisi,
dovuta alle ingiuste sanzioni dei locatori di fondi, che frenano l’avanzata
dell’economia nazionale per provare la loro tesi secondo la quale senza
democrazia elettorialista non ci sia un’economia vitale.
Considera che la Francia abbia una parte di
responsabilità in questa situazione? Almeno da quanto traspare da certe sue
dichiarazioni.
Già prima dell’invasione e dell’occupazione delle
tre regioni del nord dove il turismo costituiva una delle rare fonti di
guadagno delle popolazioni, la Francia e sulla sua scia altri paesi occidentali
hanno fatto del Mali un paese a rischio, interdetto ai loro turisti. Nè il
Marocco, nè l’Egitto, che hanno registrato attentati terroristici sanguinosi
hanno avuto lo stesso trattamento. Il rifiuto di firmare l’accordo di
riammissione dei migranti da parte dell’ex presidente del Mali, Amadou Toumani
Touré e la sua cosiddettà mancanza di efficacia nella lotta contro Aqmi, hanno
certamente infastidito il presidente francese uscente Nicolas Sarkozy.
Il presidente François Hollande ha fatto notare al
suo omologo nigerino Mahamadou Issoufou che tocca all’Africa risolvere i suoi
problemi e che la Francia non s’impegnerà in un intervento militare in Mali a
meno che il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite non ne prenda la
decsione attraverso una risoluzione. Secondo il presidente francese, se
l’intervento sarà deciso, starà agli africani il condurlo.
E’ un passo considerevole se confrontato
all’interventismo spudorato del suo predecessore. Ma il danno è già fatto. Il
pregiudizio, che è morale e politico, consiste nell’imporre alle vittime della
guerra per la sete del petrolio libico, di proteggersi essi stessi dall’aggressione
delle truppe pesantemente armate che s’incamminavano verso il Mali. Gli occidentali
avevano i mezzi tecnologici e militari per fermarli.
Maliani e maliane, oltre all’opinione pubblica
internazionale, devono sapere che se la Francia e gli Stati Uniti non avessero
trasformato la risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza (« No Fly
Zone ») in mandato di rovesciare il regime di Mouammar Gheddafi, i ribelli
e gl’islamisti che occupano il nord del Mali, non avrebbero potuto disporre di
quell’arsenale che è il loro punto di forza sul terreno.
Questa responsabilità dei paesi NATO, che è considerevole,
non è quasi mai evocata. L’ex-presidente del Sudafrica, Thabo Mbeki, è il solo
ad averlo fatto. Ricorda che Nicolas Sarkozy, Barack Obama e David Cameron
hanno calpestato il mandato del Consiglio di Sicurezza e tradito i loro
obblighi in termini di diritto internazionale decidendo del futuro della Libia.
Hanno regalmente ignorato la proposta di mediazione dell’Unione Africana e
della soluzione pacifica del conflitto.
A questo livello va misurata anche l’incoerenza
dell’organizzazione panafricana. Poichè sono gli stessi capi di stato che non
volevano interventi militari in Libia che ora ne ammettono il principio per il
Mali.
Il suo nuovo saggio intitolato « L’Africa
mutilata », che tratta della questione dello sviluppo e della condizione
femminile, ha un collegamento con questa crisi ?
Assolutamente. Perchè è a livello delle donne che
si prende la misura reale dello scacco del modello dominante tanto in materia
di sviluppo che di democratizzazione in Africa. Molto prima dell’ammutinamento
trasformatosi in colpo di stato del 22 marzo 2012, sono state le mogli e le
madri dei militari inviati al nord del paese senza l’equipaggiamento
necessario, che hanno manifestato la loro collera ed allertato l’opinione
nazionale ed internazionale. Il dramma è che in maniera generale le donne non
sono coinvolte nè nell’analisi delle cause profonde e strutturali delle crisi,
nè nella ricerca delle soluzioni.
Che mi crediate o no, la mia presa di posizione, in
quanto donna, infastidisce gli stessi che, nel mio paese come fuori, parlano
tanto della promozione e della partecipazione politica delle donne. Non è
d’altronde tanto perchè sono una donna, quanto che le questioni
macroeconomiche, geopolitiche e strategiche che approccio sono escluse dal
dibattito politico o costituiscono, quando sono sollevate, un dominio riservato
agli uomini.
E’dunque un crimine di lesa maestà che commettiamo,
Nathalie M’dela ed io, trattando dell’escissione economica in « L’Africa
mutilata ». Il parallelo tra i corpi delle donne e l’Africa, immensamente
ricca in risorse di cui l’economia mondiale ha crudelmente bisogno, ma umiliata
e spogliata, è azzeccato dal nostro punto di vista. Invito le mie sorelle
africane e non lasciarsi più strumentalizzare in nomedi un modello di sviluppo
che arricchisce i ricchi e di un processo dei democratizazione che non ne è che
il mascheramento.
Quella che è considerata comela nostra «non
integrazione» nello sviluppo è a ben vedere una fortuna dal momento in cui il
modello economico dominante è in panne e che tutto è da reinventare. I valori
non monetari che fanno la nostra forza contribuiranno, ne sono persuasa, a
ricostruire l’Africa su delle basi economiche, sociali ed ambientali più sane.
Trattandosi dell’uscita di questo saggio
nell’attuale contesto, non è che una pura coincidenza. E’ il risultato di
lunghi mesi di lavoro.
Insistete in questo saggio sulla responsabilità
dell’occidente e del modello capitalista. Sono i soli responsabili dei drammi
africani? Non hanno anche gli africani una parte di responsabilità ?
Questa domanda che mi viene fatta spesso, non
dovrebbe più essere d’attualità. Inscrivo molto semplicemente il mio discorso
nel registro del locale e del globale, qui e fuori, l’Africa e il mondo. Questa
rivendiazione del globale indispone i maliani e gli africani che vogliono
mordere la mondializzazione a pieni denti. Io sono comunque più a mio agio oggi
che le conseguenze catastrofiche del sistema capitalista che denunciavo già nel
moi primo saggio « Lo stato o l’Africa in un mondo senza frontiere »
-uscito nel 1999- sono verificabili, non solamente nei nostri paesi trattati
come Repubbliche delle banane ma anche nelle democrazie occidentali dette
avanzate, i cui popoli non sono visibilmente più felici di noi della loro
sorte.
Non sono dunque qui a far pratica di vittimismo e
di accusa dell’occidente. Il modello di cui reclama la leadership e che
c’impone è molto semplicemente un disastro in Mali come in Grecia, in Spagna,
in Portogallo ed altrove.
Mi chiede se non abbiano una parte di responsabilità.
Sì. Ma non è una colpa quella di aver cercato di essere dei buoni allievi. E’
perchè la logica del profitto e dell’accumulo senza limiti, fondamento del
sistema, finiscono spesso o tardi nell’impasse. Nei paesi occidentali in crisi,
più particolarmente in Grecia, i tenenti del capitalismo mortifero si sdoganano
e sostengono che il sitema è virtuoso ma i greci i soli responsabili dei loro
problemi.
Gli africani, notamente i dirigenti, hanno, ben
inteso, la loro parte di responsabilità nella natura particolarmente grave
della situazione del nostro continente. Mancano spesso di lungimiranza, di
vigilanza e soprattutto di solidarietà coi propri popoli. Rari sono quelli che
tra di loro ammettono che abbiamo sbagliato modello di sviluppo, come di
democrazia, a rischio di esporre i loro concittadini a ulteriori sofferenze.
Hanno l’ingenuità di credere che la crisi del sistema, che oggi dà del filo da
torcere ai loro maestri di pensiero occidentali, non ci coinvolga o solo in
maniera marginale, e che ben presto emergeremo a nostra volta, come la Cina,
l’India e il Brasile.
Nessun commento:
Posta un commento