giovedì 28 giugno 2012

Mali: la guerra non è la soluzione

Militante altermondialista e autrice di numerosi saggi sull’Africa e la mondializzazione, Aminata Traoré espone la sua visione della crisi che attraversa il suo paese, il Mali.
Come giudica l’evoluzione attuale della situazione del suo paese ?
Di un’estrema gravità , ma non disperata. C’è da una parte la disinformazione che non contribuisce per niente alla pace, e dall’altra l’attitudine di certi dirigenti africani che sembrano aver fatto la scelta della guerra nel nostro paese dall’inizio di questa crisi detta maliana.
La disinformazione consiste nell’occultare lo scacco del modello economico messo in opera e quello del sistema politico che sostituisce la democrazia. Il falso diagnostico che ne deriva spinge la comunità internazionale a prendere delle decisioni che giudico erronee ed ingiuste.
Questa crisi, non lo si dirà mai abbastanza, è prima di tutto una delle conseguenze drammatiche dell’intervento della NATO in Libia. Comprendo i miei concittadini che, traumatizzati dalla violenza dell’invasione e dell’occupazione dei 2/3 del nostro territorio e attoniti per la sconfitta del nostro esercito contro il Movimento Nazionale di Liberazione dell’Azawad (MNLA) e i suoi alleati islamisti, credono che l’intervento di forze militari esterne sia una soluzione rapida, efficace e radicale. Niente è meno certo.
Basta guardare dalle parti dell’Afghanistan, dell’Iraq, della Costa d’Avorio e della Libia per rendersi conto che la guerra non è la soluzione. Morti, violenze, feriti, sfollati, rifugiati, ecosistemi saccheggiati e distruzione di infrastrutture, spesso acquisite al prezzo del pesante fardello del debito estero, sono conseguenze che nessuno dovrebbe banalizzare e a più forte ragione ignorare.

Ma concretamente, essendo il nord occupato, come fare per recuperarlo senza un intervento militare della Comunità economica degli stati dell’Africa dell’ovest (CEDEAO)  e dell’Occidente ?
Non sarò io a dire che non bisogna fare niente per fermare il calvario dei miei fratelli e sorelle del nord del nostro paese, quando penso ai massacri perpetrati contro dei soldati disarmati a Aguelhok, alle violenze, ai morti, ai saccheggi,tra cui quelli di ospedali e farmacie. Questo trattamento è inflitto a delle popolazioni innocenti che erano già provate dalla fame, la mancanza d’acqua e altre penurie.
D’altronde, un paese, oltre ad essere una storia, un’identità, è anche la rappresentazione che se ne fa. Facciamo fatica, come maliani e maliane, ad immaginare il nostro paese amputato delle regioni di Timbuktu, Gao e Kidal. L’invio di truppe della Cedeao in questo contesto è pertanto auspicabile ? Assolutamente no. I combattimenti, se avranno luogo, non si svolgeranno nel deserto, ma nelle città e nei villaggi.
Per liberare il settentrione maliano, dobbiamo cominciare dal domandarci cosa ci succede esattamente. Perchè ? Come? Ed ora? Non arriviamo a parlarne tra di noi con la serenità necessaria in ragione di malintesi che tengono ugualmente all’ignoranza di certi progetti.
Per quelle che sono le cause interne, siamo quasi unanimi nel riconoscere la nostra mancanza di visione, le nostre incoerenze, le nostre contraddizioni, la corruzione e l’impunità. Le cause esterne, per contro, sono accuratamente occultate dal momento che sono spesso più determinanti. La classe dirigente eccelle spesso nell’arte dell’autosoddisfazione, dell’autoglorificazione e della seduzione del denaro.
Se noi fossimo più perspicaci e più aperti all’autocritica e al dibattito contraddittorio, saremmo più numerosi a comprendere che la guerra che la Cedeao valuta di fare nel nostro paese, non è che quella della restaurazione dell’integrità territoriale. E anche una nuova tappa della guerra mondiale al terrorismo, mirante a contrastare Al Quaida nel Maghreb Islamico (Aqmi), Ansar Eddine e altri gruppi islamisti sul nostro territorio.
Non avremmo avuto niente da ridire se non si trattasse dell’esternalizzazione della politica securitaria delle potenze occidentali che sono in una logica di noncuranza della violenza armata di alcuni dirigenti africani. Questi ultimi, nel caso del Mali, sembrano anche giocare d’anticipo, sollecitando la Francia e il Consiglio di Sicurezza dell’ONU.
La doppia pena inflitta al nostro paese, sotto il pretesto di aver fallito su differenti piani dalla protezione delle sue frontiere a quella delle sue aquisizioni democratiche, consiste nel farne un terreno di caccia contro l’islamismo –di cui sarebbe diventato di punto in bianco il focolaio-, e a reinstaurare, costi quel che costi, un ordine costituzionale detto normale, nel momento in cui questo non aveva niente di virtuoso.
Bisogna credere, partendo da questa analisi, che la presa in mano del dossier da parte dell’Unione Africana vada nel verso giusto ?
Il rifiuto della democrazia è purtroppo lo stesso a livello di tutte queste istanze, perchè la premessa di partenza, che consiste nel decretare che c’è democrazia dal momento in cui ci sono libere elezioni, è erronea. Il processo di presa di decisione nella gestione di questa crisi riproduce l’esclusione di cui i maliani e le maliane hanno sofferto negli ultimi vent’anni, a dispetto della retorica sulla decentralizzazione e la partecipazione popolare.­­
Per lo stato neoliberale, noi non contiamo in quanto popolo. Ed ecco che noi non contiamo più in quanto paese. Oltre all’occupazione del nord, noi siamo sotto tutela per quanto riguarda la questione politico-istituzionale. La logica dominante vuole che a partire dal momento in cui non ci sono dei dirigenti legittimati da delle elezioni, anche se gli eletti che hanno governato hanno fallito, non ci sia più nient’altro da fare che organizzare delle elezioni in modo da rimettere i medesimi in sella.
E’ a questo gioco pericoloso che sta giocando la Cedeao, accordando più importanza alla legittimità di facciata che all’integrità territoriale e alle risposte concrete e rapide che i maliani e le maliane attendono, da troppo tempo, alle domande di vita o di morte che si pongono.
Se l’embargo totale che la Cedeao voleva imporci è stato evitato, il paese si sta comunque confrontando con una sorta di paralisi, dovuta alle ingiuste sanzioni dei locatori di fondi, che frenano l’avanzata dell’economia nazionale per provare la loro tesi secondo la quale senza democrazia elettorialista non ci sia un’economia vitale.
Considera che la Francia abbia una parte di responsabilità in questa situazione? Almeno da quanto traspare da certe sue dichiarazioni.
Già prima dell’invasione e dell’occupazione delle tre regioni del nord dove il turismo costituiva una delle rare fonti di guadagno delle popolazioni, la Francia e sulla sua scia altri paesi occidentali hanno fatto del Mali un paese a rischio, interdetto ai loro turisti. Nè il Marocco, nè l’Egitto, che hanno registrato attentati terroristici sanguinosi hanno avuto lo stesso trattamento. Il rifiuto di firmare l’accordo di riammissione dei migranti da parte dell’ex presidente del Mali, Amadou Toumani Touré e la sua cosiddettà mancanza di efficacia nella lotta contro Aqmi, hanno certamente infastidito il presidente francese uscente Nicolas Sarkozy.
Il presidente François Hollande ha fatto notare al suo omologo nigerino Mahamadou Issoufou che tocca all’Africa risolvere i suoi problemi e che la Francia non s’impegnerà in un intervento militare in Mali a meno che il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite non ne prenda la decsione attraverso una risoluzione. Secondo il presidente francese, se l’intervento sarà deciso, starà agli africani il condurlo.
E’ un passo considerevole se confrontato all’interventismo spudorato del suo predecessore. Ma il danno è già fatto. Il pregiudizio, che è morale e politico, consiste nell’imporre alle vittime della guerra per la sete del petrolio libico, di proteggersi essi stessi dall’aggressione delle truppe pesantemente armate che s’incamminavano verso il Mali. Gli occidentali avevano i mezzi tecnologici e militari per fermarli.
Maliani e maliane, oltre all’opinione pubblica internazionale, devono sapere che se la Francia e gli Stati Uniti non avessero trasformato la risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza (« No Fly Zone ») in mandato di rovesciare il regime di Mouammar Gheddafi, i ribelli e gl’islamisti che occupano il nord del Mali, non avrebbero potuto disporre di quell’arsenale che è il loro punto di forza sul terreno.
Questa responsabilità dei paesi NATO, che è considerevole, non è quasi mai evocata. L’ex-presidente del Sudafrica, Thabo Mbeki, è il solo ad averlo fatto. Ricorda che Nicolas Sarkozy, Barack Obama e David Cameron hanno calpestato il mandato del Consiglio di Sicurezza e tradito i loro obblighi in termini di diritto internazionale decidendo del futuro della Libia. Hanno regalmente ignorato la proposta di mediazione dell’Unione Africana e della soluzione pacifica del conflitto.
A questo livello va misurata anche l’incoerenza dell’organizzazione panafricana. Poichè sono gli stessi capi di stato che non volevano interventi militari in Libia che ora ne ammettono il principio per il Mali.
Il suo nuovo saggio intitolato « L’Africa mutilata », che tratta della questione dello sviluppo e della condizione femminile, ha un collegamento con questa crisi ?
Assolutamente. Perchè è a livello delle donne che si prende la misura reale dello scacco del modello dominante tanto in materia di sviluppo che di democratizzazione in Africa. Molto prima dell’ammutinamento trasformatosi in colpo di stato del 22 marzo 2012, sono state le mogli e le madri dei militari inviati al nord del paese senza l’equipaggiamento necessario, che hanno manifestato la loro collera ed allertato l’opinione nazionale ed internazionale. Il dramma è che in maniera generale le donne non sono coinvolte nè nell’analisi delle cause profonde e strutturali delle crisi, nè nella ricerca delle soluzioni.
Che mi crediate o no, la mia presa di posizione, in quanto donna, infastidisce gli stessi che, nel mio paese come fuori, parlano tanto della promozione e della partecipazione politica delle donne. Non è d’altronde tanto perchè sono una donna, quanto che le questioni macroeconomiche, geopolitiche e strategiche che approccio sono escluse dal dibattito politico o costituiscono, quando sono sollevate, un dominio riservato agli uomini.
E’dunque un crimine di lesa maestà che commettiamo, Nathalie M’dela ed io, trattando dell’escissione economica in « L’Africa mutilata ». Il parallelo tra i corpi delle donne e l’Africa, immensamente ricca in risorse di cui l’economia mondiale ha crudelmente bisogno, ma umiliata e spogliata, è azzeccato dal nostro punto di vista. Invito le mie sorelle africane e non lasciarsi più strumentalizzare in nomedi un modello di sviluppo che arricchisce i ricchi e di un processo dei democratizazione che non ne è che il mascheramento.
Quella che è considerata comela nostra «non integrazione» nello sviluppo è a ben vedere una fortuna dal momento in cui il modello economico dominante è in panne e che tutto è da reinventare. I valori non monetari che fanno la nostra forza contribuiranno, ne sono persuasa, a ricostruire l’Africa su delle basi economiche, sociali ed ambientali più sane.
Trattandosi dell’uscita di questo saggio nell’attuale contesto, non è che una pura coincidenza. E’ il risultato di lunghi mesi di lavoro.
Insistete in questo saggio sulla responsabilità dell’occidente e del modello capitalista. Sono i soli responsabili dei drammi africani? Non hanno anche gli africani una parte di responsabilità ?
Questa domanda che mi viene fatta spesso, non dovrebbe più essere d’attualità. Inscrivo molto semplicemente il mio discorso nel registro del locale e del globale, qui e fuori, l’Africa e il mondo. Questa rivendiazione del globale indispone i maliani e gli africani che vogliono mordere la mondializzazione a pieni denti. Io sono comunque più a mio agio oggi che le conseguenze catastrofiche del sistema capitalista che denunciavo già nel moi primo saggio « Lo stato o l’Africa in un mondo senza frontiere » -uscito nel 1999- sono verificabili, non solamente nei nostri paesi trattati come Repubbliche delle banane ma anche nelle democrazie occidentali dette avanzate, i cui popoli non sono visibilmente più felici di noi della loro sorte.
Non sono dunque qui a far pratica di vittimismo e di accusa dell’occidente. Il modello di cui reclama la leadership e che c’impone è molto semplicemente un disastro in Mali come in Grecia, in Spagna, in Portogallo ed altrove.
Mi chiede se non abbiano una parte di responsabilità. Sì. Ma non è una colpa quella di aver cercato di essere dei buoni allievi. E’ perchè la logica del profitto e dell’accumulo senza limiti, fondamento del sistema, finiscono spesso o tardi nell’impasse. Nei paesi occidentali in crisi, più particolarmente in Grecia, i tenenti del capitalismo mortifero si sdoganano e sostengono che il sitema è virtuoso ma i greci i soli responsabili dei loro problemi.
Gli africani, notamente i dirigenti, hanno, ben inteso, la loro parte di responsabilità nella natura particolarmente grave della situazione del nostro continente. Mancano spesso di lungimiranza, di vigilanza e soprattutto di solidarietà coi propri popoli. Rari sono quelli che tra di loro ammettono che abbiamo sbagliato modello di sviluppo, come di democrazia, a rischio di esporre i loro concittadini a ulteriori sofferenze. Hanno l’ingenuità di credere che la crisi del sistema, che oggi dà del filo da torcere ai loro maestri di pensiero occidentali, non ci coinvolga o solo in maniera marginale, e che ben presto emergeremo a nostra volta, come la Cina, l’India e il Brasile.

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