mercoledì 28 novembre 2012

CRISI DEL NORD: IL "NO" DELLE DONNE A UN INTERVENTO MILITARE


novembre 22, 2012 - 17:00 MALI

“Come mai i potenti del mondo che si preoccupano così tanto della sorte delle donne maliane e africane non ci dicono la verità sulla posta in gioco – risorse minerarie, petrolio e strategie geopolitiche – nella guerra che si sta profilando all’orizzonte?”. A interrogarsi sulle vere motivazioni di un intervento militare per risolvere la crisi settentrionale sono proprio loro, le donne del Mali – attiviste, scrittrici, artiste, esponenti della società civile – in un ‘j’accuse’ con il quale dicono con convinzione “no a una guerra per procura”.


Secondo le firmatarie dell’appello – tra cui la scrittrice ed ex ministro della Cultura Aminata Dramane Traoré – “se l’amputazione dei due terzi del nostro territorio e l’imposizione della sharia alle popolazioni delle zone occupate sono umanamente inaccettabili”, sono altrettanto “intollerabile e indifendibile le strumentalizzazioni da parte di attori esterni”. In prima fila tra questi ultimi ci sono i paesi della Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Cedeao/Ecowas), ma anche l’Unione Africana (UA), la cui richiesta di dispiegamento di truppe africane nel Nord del Mali “è basata su una diagnosi deliberatamente di parte e illegittima non essendo il risultato di una concertazione nazionale”. Così, continuano le donne del Mali, “nel nome delle violenze che abbiamo subito si sta giustificando un’ingerenza, una guerra dettata invece dalle risorse naturali e da altri interessi esterni”.
Le firmatarie dell’appello sottolineano che l’implosione del Mali è la conseguenza diretta della “guerra ingiusta combattuta nel 2011 in Libia, in violazione del diritto internazionale”, e prima ancora “di quella afgana, durata 11 anni, da dove Francia e Stati Uniti si stanno ritirando proprio in questo momento”. Secondo questa lettura, la vittoria militare ottenuta negli ultimi mesi sia dal Movimento nazionale di liberazione dell’Azawad (Mnla, ribellione indipendentista tuareg) che da Al Qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi) e i suoi alleati “è stata possibile grazie agli arsenali provenienti dal conflitto libico”. Per le donne del Mali, a giustificare l’attivismo militare della Francia e di altre potenze occidentali, “è la costituzione nel Sahel di feudi terroristici e di kamikaze che rappresentano una minaccia agli interessi dei potenti nella regione (…) a cominciare dai vicini giacimenti di uranio in Niger, vitali per Parigi”. Eppure, si sottolinea nell’appello, “la presenza nelle moschee del Mali di afgani, pachistani, algerini e altri predicatori non è nuova (…) risale agli anni 1990, quando si sono fatte sentire le prime conseguenze drammatiche socio-economiche di politiche imposte dalle istituzioni internazionali”.
Guardando al prossimo futuro, le donne del Mali auspicano che il Consiglio di sicurezza dell’Onu non dia il suo consenso al piano di intervento militare della Cedeao e invitano l’Unione Africana, “marginalizzata e umiliata nella gestione della crisi libica, a meditare sugli insegnamenti della caduta del regime di Gheddafi prima di lanciarsi in una nuova avventura in Mali”. Uno scenario che, aggiungono le firmatarie, “provocherà altre vittime civili nel Nord, aggraverà l’insicurezza e le condizioni socio-economiche dell’intero paese, già molto difficili”.
Se l’operazione militare esterna non è ancora cominciata, nei fatti “le sanzioni economiche imposte dalla comunità internazionale stanno già gravando sul popolo maliano, impegnato in una lotta quotidiana e infinita per la sopravvivenza”. Come alternativa alla risposta militare, “che non tiene conto della vulnerabilità delle popolazioni del Nord, né delle componenti locali, tra cui la ribellione tuareg, già strumentalizzate”, le donne del Mali propongono la ‘Badenya’ (figli della madre, in lingua locale), cioè un rifiuto della guerra e delle sue conseguenze, “per far prevalere la vita, puntando a un dialogo inclusivo e cogliendo la transizione in corso a Bamako come un’occasione storica”.
L’appello delle donne del Mali si è aggiunto alla posizione espressa con forza dall’arcivescovo di Bamako, monsignor Jean Zerbo. “Bisogna privilegiare la strada del dialogo fin quando sarà possibile percorrerla. Purtroppo il Mali non ha mai registrato un numero così elevato di vittime. Ritroviamo la nostra dignità rinunciando alla violenza” ha detto l’arcivescovo al quotidiano locale ‘Journal du Mali’, in occasione del pellegrinaggio nella città di Kita, dove 124 anni fa arrivarono i primi missionari.
Un’altra voce a favore del dialogo è arrivata dall’inviato speciale dell’Onu per il Sahel, Romano Prodi, che in visita in Marocco ha ribadito che “la mia missione è di fare di tutto per la pace ed evitare la guerra”. L’ex presidente del Consiglio italiano e della Commissione europea ha anche affermato che l’intervento militare “non sarà possibile prima di settembre 2013” per motivi organizzativi e logistici. Intanto nelle prossime ore dovrebbe tenersi al Quai d’Orsay, il ministero degli Esteri francese, un primo incontro ufficiale con una delegazione del Movimento nazionale di liberazione dell’Azawad, già coinvolto in un dialogo con la Cedeao assieme agli islamici di Ansar Al Din. Dal terreno è invece arrivata la conferma del rapimento di un cittadino francese di origine portoghese, il sessantunenne Gilberto Rodriguez Léal, portato via da Diéma, località vicina a Kayes, al confine con il Senegal, o secondo altre fonti da Nioro, nei pressi della frontiera con la Mauritania. Una rivendicazione del rapimento, che porta a sette il numero degli ostaggi francesi nel Sahel, sarebbe stata avanzata dal Movimento per l’unità e il Jihad in Africa occidentale (Mujao), un gruppo di matrice islamica che ha la sua roccaforte nella città di Gao (nord).


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