venerdì 16 novembre 2012

Le sabbie mobili del Mali

di Andrea de Georgio

Bamako - In Mali le dune del deserto del Sahara sono diventate sabbie mobili. Una crisi politica interna che si trascina da mesi e una violenta occupazione di due terzi del territorio nazionale da parte di gruppi terroristici legati ad Al Qaeda hanno trasformato il paese nell’ombelico delle tensioni mondiali. Come dimostrato dal recente summit sul Sahel organizzato al Palazzo di Vetro di New York, la crisi che sta investendo questo grande paese africano – in passato culla di tre Imperi e in tempi più recenti modello di democrazia e stabilità di una regione tutt’altro che tranquilla – interes- sa e preoccupa diverse potenze mondiali.

Nel quasi completo silenzio dei media italiani (nonostante la fresca nomina di Romano Prodi come Inviato speciale di Ban Ki Moon nel Sahel), la peggior crisi sociopolitica che il Mali abbia mai vissu- to attraversa trasversalmente diversi piani, mischiando le carte delle potenze regionali e interna- zionali. Algeria, Qatar, Francia e Stati Uniti sono gli attori principali del grande circo che si sta muovendo intorno alle conseguenze dell’occupazione del nord del paese da parte della galassia qaedista, salafita e jhiadista. La costola maghrebina di Al Qaeda – formata dalle sigle di Aqmi (Al Qaeda nel Maghreb Islamico), Mujao (Movimento per l’unicità e la jhiad in Africa Occidentale) e Ansar Addin (l’unico gruppo formato esclusivamente da elementi maliani) – ha spodestato lo sco- modo e laico ex-alleato tuareg del Mnla nella conquista delle tre regioni settentrionali di Timbouktou, Gao e Kidal sostituendo la bandiera dell’Azawad (la patria rivendicata dagli indipendentisti tuareg del Mnla) a quella nera della jhiad islamica. La graduale avanzata dei gruppi salafiti, che ha causato una crisi politica a Bamako con- fluita (e radicalizzata) nel colpo di stato militare del 22 marzo scorso, va di pari passo a un’applicazione sommaria e violenta della legge coranica.



Amputazioni, lapidazioni, distruzioni di mausolei e siti storici protetti dall’Unesco si sono negli ultimi mesi affiancati alla grave crisi alimentare del Sahel, portando a estreme conseguenze umanitarie. Le popolazioni settentrionali del Mali, duramente provate dall’occupazione, sono per la maggior parte fuggite al sud o in paesi vicini. La risoluzione della “questione settentrionale” sta prendendo mesi, viaggiando sui binari paralleli di negoziazione e intervento armato. Da una parte il governo transitorio maliano che, rifiutando il dialogo e trovando rifugio sotto l’ala protettrice della Francia, a inizio settembre ha richiesto formalmente l’aiuto militare della Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale (Cedeao/Ecowas) di cui è membro. Dall’altra l’asse regionale di alcuni paesi confinanti (Mauritania, Niger, Burkina Faso) che, guidata dall’Algeria, si dice contraria a un inter- vento “esterno” e cerca di portare avanti segrete negoziazioni con i gruppi terroristici per evitare una guerra che porterebbe scompiglio alle loro frontiere. Secondo l’ambasciatore olandese in Mali, profondo conoscitore dei problemi della zona e diplomatico che gode di una posizione meno com- promessa dell’omologo francese o statunitense, la questione delle risorse del sottosuolo del nord non sarebbe la ragione principale del coinvolgimento dei grandi attori, quanto invece le logiche geopolitiche e strategiche. In effetti la presenza di petrolio, oro, diamanti e idrocarburi non è stata ancora provata, nonostante le ricerche. Anche se da diversi anni è allo studio un grande progetto internazionale per la creazione di un bacino potenzialmente produttore d’idrocarburi che dal Golfo di Guinea attraversando i territori del Mali e dall’Algeria arriverebbe fino all’Europa canalizzando il petrolio di Nigeria, Niger e Chad, senza sicurezza nella regione il progetto resterebbe sulla carta. Dunque, secondo diversi analisti e diplomatici, sarebbe l’aspetto securitario quello prevalente nel teatro saharo-saheliano. L’obiettivo sarebbe dunque recuperare il controllo dell’ampia zona che, soprat- tutto per abbandono negli anni scorsi da parte dell’autorità maliana e più recentemente per gli effetti della caduta del regime libico di Gheddafi, si è trasformato nel santuario di traffici illegali (droga, armi ed esseri umani) e del terrorismo internazionale. Ma per quan- to il quadro sia già abbastanza complesso, non è ancora completo. Paesi come il Qatar e l’Arabia Saudita stanno giocando una partita diversa nelle dune del Mali.

Il conflitto interreligioso che sta attraversando l’Islam, acuito dalle primavere arabe e che vede contrapposti il sufismo (corrente più spirituale e antica) ai più recenti e politicizzati wahabismo e salafi- smo, sta trovando nuova linfa vitale nella crisi saheliana. L’Arabia Saudita, incubatrice della dottrina del wahabismo, contro il Qatar, che finanzia gruppi salafiti in Tunisia, Libia, Egitto, Siria e ora anche in Africa occidentale. Il Mali è un esempio lampante di questa lotta intestina confessionale. Il 60-70% della comunità musulmana locale segue la scuola sufi malikita che professa un Islam spirituale, intimista e moderato più vicino ai culti tradizionali africani. L’Alto Consiglio Islamico, principale apparato politico della comunità mu- sulmana del Mali, è controllato invece dai wahabiti, decisamente meno numerosi ma più avvezzi alla partecipazione politica. Quello che preoccupa è il progressivo avvicinamento di alcune frange radicali del wahabismo africano a gruppi salafiti e jhiadisti come Boko Haram in Nigeria, gli Shabab somali e Aqmi in Mali. È la versione africana del conflitto interreligioso fra estremisti e moderati che si osserva, soprattutto dopo le Primavere arabe, nei paesi del Nord Africa e del Medioriente.

In tutto questo marasma la Francia, ex potenza coloniale e – come evidente dalle recenti dichiara- zioni del Presidente Hollande a Dakar – intenzionata a rinnovare il progetto politico della “Franca- frique”, non può che essere direttamente chiamata in causa come attore esterno principale. Nono- stante le continue rassicurazioni circa un supporto prettamente “logistico” e non attivo, è proprio l’Eliseo a spingere, in seno all’Onu, per una risoluzione che appoggi in tutto e per tutto un interven- to armato della Cedeao (sotto l’egida dell’Onu e dell’Unione Africana) in tempi stretti. Gli Stati Uniti, rispettando la precedenza francese e mostrandosi più attendista, sono più cauti e sostanzialmente diffidano del governo fantoccio di transizione di Bamako. Da qui la risoluzione 20/71 approvata dall’Onu all’unanimità il 12 ottobre scorso che dà 45 giorni di tempo alla Cedeao e agli altri soggetti coinvolti per definire più precisamente tempi e modi di un intervento che sembra sempre più inevi- tabile ma preoccupa non poco gli Usa, che vorrebbero delle elezioni credibili prima della riconqui- sta del nord. Richiesta rimandata al mittente dal governo transitorio maliano che sostiene, logica- mente, che una votazione in un terzo del territorio nazionale sarebbe come legittimare la divisione del paese. Nonostante i tentativi di dialogo con i gruppi terroristici si stiano ancora susseguendo ad Algeri come a Niamey (Niger), a Nouakchott (Mauritania) come a Ouagadougou (Burkina Faso), la via maestra della comunità internazionale per uscire dalle sabbie mobili maliane sembra essere stata delineata (nell’incontro del 19 ottobre fra Onu, Ua e Cedeao) in un intervento armato contro lo zoccolo duro di Aqmi e Mujao che deve però seguire il tentativo di redenzione delle componenti “nazionali” ribelli (Mnla e Ansar Addin). È questione di mesi e la guerra soffierà sulle dune del de- serto del Sahara.

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